martedì 16 aprile 2024

LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA di ILAN PAPPE' 2° parte


INTRODUZIONE DOVEROSA E PERSONALE:
Quello che racconta Pape' nei suoi libri è un'altra verità che non troverete mai nella storiografia ufficiale, proprio perché scritta da un intellettuale ebreo dissidente, quindi non accusabile di antisemitismo, SEMMAI, di antisionismo. Una verità scomoda ed allo stesso tempo atroce, che lascia senza fiato, ma sempre documentatissima e molto centrata.
Mi limiterò a pubblicare in questa 2° parte il 1° capitolo del suo libro "La pulizia etnica della Palestina", perché merita di essere conosciuto più di quanto non lo sia oggi, essendo stato isolato dal mainstream e, comunque, conosciuto solo da una nicchia di lettori e addetti ai lavori che, puntualmente e salvo rare eccezioni, evitano di citarlo.
Nella speranza di fornire qualche spunto di riflessione, senza mai voler scadere nell'odio gratuito quanto inutile.
In questo modo è possibile arrivare alla genesi del conflitto, senza essere accusati vigliaccamente di antisemitismo, favorendo anche tutti quegli israeliani democratici che oggi lottano per destituire l'attuale premier in patria.
La genesi del conflitto, da quando nacque lo Stato di Israele, ha risvolti molto simili all'attuale conflitto in corso.
Personalmente, amo la cultura ebraica, il loro cosmopolitismo, la loro capacità di unione fraterna, il loro ingegno, la loro capacità di risollevarsi da qualsiasi tragedia subita, come mi sento vicino ad un certo mondo intellettuale ed artistico, compreso il loro umorismo surreale.
Purtroppo, conosco molto bene la tragedia delle deportazioni nazifasciste della 2° Guerra Mondiale, dato che mia nonna paterna rischiò di finire in un lager, avendo un cognome ebreo.
Sono semplicemente molto critico sul sionismo che, nella sua accezione più estrema e fondamentalista, si rivela in primis il peggior alleato di Israele e della religione ebraica, oltre ad aver causato massacri e guerre senza fine alle popolazioni native di Palestina.
Mi sento vicino a Pappe' ma anche, per esempio e tra i tanti, a Moni Ovadia, orgoglioso e fiero ebreo dissidente contro le derive reazionarie e autoritarie del suo paese.
Se vogliamo ripartire da zero e, quindi dalla ricostruzione di una pace realistica e duratura tra le due popolazioni, bisognerà iniziare seriamente a studiare la storia del 48, gli orrori silenziati, le deportazioni di massa, le stragi, senza occultare più nulla, con coraggio e senza falsi pudori, perché la verità ci renderà liberi, almeno un po' più di prima.
Spero vivamente!

BIOGRAFIA ILAN PAPPE':
Ilan Pappé è uno dei maggiori storici del Medio Oriente. Intellettuale e studioso socialista, ebreo e anti-sionista, di formazione comunista, è uno dei rappresentanti della cosiddetta Nuova storiografia israeliana. Nato ad Haifa da genitori ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista, ha conseguito il dottorato a Oxford. Nel 2005 ha sostenuto il boicottaggio di Israele e per questo, dopo aver insegnato per anni a Haifa, si è dovuto trasferire in Gran Bretagna, all’Università di Exeter. 
Docente di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici presso il College of Social Sciences and International Studies e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, ha pubblicato numerosi saggi. 
Fra le sue opere tradotte in italiano, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (Einaudi, 2005), La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008); con Noam Chomsky ha scritto Ultima fermata Gaza (Ponte alle Grazie, 2010) e Palestina e Israele: che fare? (Fazi 2015). Nel 2022 Fazi pubblica La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, entrato nelle classifiche di vendita a ottobre 2023 a causa del drammatico riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese.

CAPITOLO 1. Una “presunta” pulizia etnica?
È parere di chi scrive che la pulizia etnica sia una politica
ben definita di un particolare gruppo di persone
per eliminare sistematicamente un altro gruppo da un
certo territorio, su basi di origini religiose, etniche o
nazionali. Tale politica implica violenza ed è spesso
associata a operazioni militari. Deve essere realizzata
con tutti i mezzi possibili, dalla discriminazione allo
sterminio, e comporta l’inosservanza dei diritti umani
e delle leggi umanitarie internazionali... La maggior
parte dei metodi di pulizia etnica costituiscono
gravi violazioni della Convenzione di Ginevra del
1949 e dei Protocolli supplementari del 1977. 

Definizioni di pulizia etnica
La pulizia etnica è oggi un concetto ben definito. Da astrazione associata quasi esclusivamente a quanto accaduto nell’ex Iugoslavia, “pulizia etnica” ha finito per indicare un crimine contro l’umanità, punibile secondo il diritto internazionale. Il modo particolare in cui alcuni generali e politici serbi usavano questa espressione fece tornare in mente agli studiosi di averla già sentita prima. Era stata usata infatti nella seconda guerra mondiale dai nazisti e dai loro alleati, tra i quali le milizie croate in Iugoslavia. 
Le radici dell’espropriazione collettiva sono di certo più antiche. 
Invasori stranieri hanno usato quel termine (o suoi equivalenti) e quel concetto, applicandoli regolarmente contro popolazioni indigene, dai tempi biblici fino all’età del colonialismo più sfrenato.
L’enciclopedia Hutchinson definisce la pulizia etnica come l’espulsione forzata volta a omogenizzare una popolazione etnicamente mista in una particolare regione o territorio. Scopo dell’espulsione è causare l’allontanamento del maggior numero possibile dei residenti, con tutti i mezzi a disposizione, inclusi quelli non violenti, come accadde con i musulmani in Croazia, espulsi dopo gli accordi di Dayton del novembre del 1995.
Tale definizione è accettata anche dal Dipartimento di Stato statunitense, i cui esperti aggiungono che parte essenziale della pulizia etnica è l’annullamento della storia di un territorio con ogni mezzo possibile. 
Il metodo più comune è quello dello spopolamento «in un’atmosfera che legittimi atti di rappresaglia e vendetta». Il risultato finale di simili azioni è l’insorgere del problema dei profughi. Il Dipartimento di Stato ha considerato, in particolare, quanto avvenuto nel maggio del 1999 a Peck nel Kosovo occidentale. Peck fu svuotata in ventiquattr’ore, un risultato che sarebbe stato possibile raggiungere solo grazie a una pianificazione pregressa seguita da una messa in atto sistematica. Per velocizzare l’operazione ci furono anche sporadici massacri. Quel che accadde a Peck nel 1999 ebbe luogo, quasi allo stesso modo, in centinaia di villaggi palestinesi nel 1948.
Se prendiamo in considerazione le Nazioni Unite, troviamo definizioni simili: nel 1993 si esaminò e discusse a fondo il concetto. 
Il Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani (UNCHR) collega il desiderio di uno Stato o di un regime di imporre regole etniche su un’area mista – come per la formazione della “Grande Serbia” – al ricorso all’espulsione e ad altre azioni violente. 
La relazione che l’UNCHR pubblicò definiva atti di pulizia etnica quelli che includevano «la separazione degli uomini dalle donne, l’imprigionamento degli uomini, la distruzione delle case», assegnando poi quelle ancora in piedi a un altro gruppo etnico. 
Il rapporto rilevava che in alcune zone del Kosovo le milizie musulmane avevano opposto resistenza e, laddove c’era stata resistenza a oltranza, l’espulsione si era tramutata in massacri.

Il Piano israeliano del 1948, citato nella prefazione, contiene un repertorio di metodi di pulizia etnica che rientrano nelle modalità descritte dall’ONU e atte a definirla, preparando il retroterra per i massacri che accompagnarono l’espulsione di massa.
Queste definizioni di pulizia etnica sono anche quelle in auge negli ambienti colti e accademici. Drazˇen Petrovic´ è autore di uno dei più ampi saggi sulle definizioni di pulizia etnica, che associa al nazionalismo, alla formazione di nuovi Stati-nazione e alle lotte nazionali. In quest’ottica egli dimostra la stretta relazione tra politici ed esercito nel perpetrare i crimini ed esamina il ruolo dei massacri: i capi politici delegano l’attuazione della pulizia etnica al livello militare, senza necessariamente fornire alcun piano sistematico o istruzioni esplicite pur non lasciando dubbi sull’obiettivo finale.
Così, a un certo punto – e anche questo rispecchia esattamente ciò che accadde in Palestina –, i politici smettono di partecipare attivamente non appena l’ingranaggio dell’espulsione entra in azione come un enorme bulldozer che, spinto dalla sua stessa inerzia, si ferma soltanto quando ha completato il suo compito. 
I politici che hanno messo in moto questo meccanismo non si preoccupano minimamente di chi è schiacciato e ucciso. 
Petrovic´ e altri sottopongono alla nostra attenzione la differenza tra massacri che fanno parte di un genocidio, laddove siano premeditati, e massacri “non pianificati” che sono diretta conseguenza dell’odio e della vendetta, fomentati dai capi sullo sfondo di una direttiva generale per portare avanti la pulizia etnica.
Quindi, la definizione data dall’enciclopedia e da noi riportata sembra corrispondere al modo più dotto di concettualizzare il crimine della pulizia etnica. Secondo entrambi i punti di vista, la pulizia etnica è un tentativo di rendere omogenea una nazione a etnia mista, espellendo un particolare gruppo di persone, trasformandole in profughi e demolendo poi le case dalle quali sono state cacciate. 
Ci può ben essere un master plan, ma la maggior parte delle truppe impegnate nella pulizia etnica non ha bisogno di ordini diretti: sa in anticipo cosa deve fare. 
I massacri accompagnano le operazioni, ma quando si verificano non fanno parte di un piano di genocidio: sono la chiave tattica per accelerare la fuga della popolazione destinata all’espulsione. In seguito, gli espulsi saranno cancellati dalla storia ufficiale e popolare del paese ed esclusi dalla memoria collettiva. Quanto è accaduto in Palestina nel 1948, dalla fase di pianificazione all’esecuzione finale, secondo queste informate e dotte definizioni rappresenta un chiaro esempio di pulizia etnica.

Definizioni popolari
L’enciclopedia elettronica Wikipedia è una fonte di conoscenze e di informazioni accessibile a tutti. Chiunque può entrare, aggiungere o modificare le definizioni esistenti in modo che riflettano – intuitivamente piuttosto che empiricamente – un’ampia percezione pubblica di una certa idea o concetto. Come le definizioni accademiche o enciclopediche summenzionate, Wikipedia descrive la pulizia etnica come espulsione di massa e anche come crimine. Cito: Parlando in generale, per pulizia etnica si può intendere l’espulsione forzata di una popolazione “indesiderata” da un certo territorio, come risultato di una discriminazione religiosa o etnica, di considerazioni politiche, strategiche o ideologiche, o da una loro combinazione.
La voce elenca diversi casi di pulizia etnica nel XX secolo, cominciando dall’espulsione dei bulgari dalla Turchia nel 1913 sino ad arrivare all’evacuazione israeliana dei coloni ebrei da Gaza nel 2005. Questo elenco può sembrare un po’ strano perché pone nella stessa categoria la pulizia etnica nazista e l’allontanamento da parte di uno Stato sovrano di componenti della sua stessa popolazione dopo averli dichiarati coloni illegali. 
Ma questa classificazione diventa possibile grazie al criterio politico adottato da chi scrive – in questo caso tutti coloro che accedono al sito – cioè quello di accertarsi che l’aggettivo “presunto” preceda nel loro elenco ogni caso storico.
Wikipedia include anche la Nakba palestinese del 1948, ma non si evince se i curatori la giudichino un caso di pulizia etnica che non lascia spazio ad ambivalenze – come negli esempi della Germania nazista o della ex Iugoslavia – o se la considerino un caso più dubbio, simile forse a quello dei coloni ebrei che Israele evacuò dalla Striscia di Gaza. 
Un criterio accettato generalmente da questa e altre fonti per valutare la fondatezza delle accuse è un processo davanti a un tribunale internazionale. 
In altre parole, se i colpevoli sono stati assicurati alla giustizia, cioè processati da un tribunale internazionale, cade ogni ambiguità e quindi il crimine di pulizia etnica non è più “presunto”. Dopo un’ulteriore riflessione lo stesso criterio andrebbe applicato anche ai casi che avrebbero dovuto essere portati davanti alle corti di giustizia internazionali, ma non lo sono mai stati. La discussione rimane spesso aperta, tanto che alcuni crimini eclatanti contro l’umanità richiedono una lunga battaglia prima che il mondo li riconosca come fatti storici. Ben lo sanno gli armeni, il cui genocidio fu perpetrato quando nel 1915 il governo ottomano intraprese la sistematica decimazione del loro popolo. 
Si calcola che fino al 1918 siano morte un milione di persone, senza che siano mai stati portati in giudizio singole persone o gruppi di individui.

Pulizia etnica come crimine
La pulizia etnica è dichiarata crimine contro l’umanità nei trattati internazionali – per esempio in quello istitutivo della Corte Criminale Internazionale (ICC) –, soggetto al giudizio di un tribunale internazionale, sia che il crimine sia “presunto” o ampiamente conclamato. Nel caso della ex Iugoslavia è stato istituito appositamente all’Aia un Tribunale internazionale per giudicare responsabili ed esecutori, come pure ad Arusha, in Tanzania, nel caso del Ruanda. Altrove, la pulizia etnica è stata definita crimine di guerra anche quando non è stato aperto alcun procedimento legale vero e proprio (per esempio, per l’operato del governo sudanese nel Darfur).
Questo libro è scritto con la profonda convinzione che la pulizia etnica in Palestina debba radicarsi nella nostra memoria come crimine contro l’umanità ed essere tolta dall’elenco dei crimini presunti. 
Qui i responsabili non sono sconosciuti – sono un gruppo specifico di persone: gli eroi della guerra ebraica d’indipendenza, i cui nomi sono noti alla maggior parte dei lettori. 
Il primo è quello dell’indiscusso leader del movimento sionista, David Ben Gurion, nella cui residenza furono discussi e completati i primi e gli ultimi capitoli della storia della pulizia etnica. Lo aiutò un piccolo gruppo di persone che in questo libro chiamo la «Consulta», riunito in gran segreto con il solo scopo di progettare e pianificare l’espropriazione dei palestinesi. In uno dei rari documenti che registra una riunione della Consulta, questa è chiamata Comitato consulente, Haveadah Hamyeazet. 
In un altro documento compaiono gli undici membri del Comitato, i cui nomi, benché cancellati dal censore, sono tuttavia riuscito a ricostruire.
Questa cricca preparò i piani per la pulizia etnica e ne controllò l’esecuzione fino allo sradicamento di metà della popolazione autoctona palestinese. 
Ne facevano parte in primo luogo gli ufficiali di più alto grado dell’esercito del futuro Stato ebraico, come i leggendari Yigael Yadin e Moshe Dayan
A loro si univano personaggi poco conosciuti fuori d’Israele, ma profondamente radicati nel sentimento popolare, come Yigal Allon e Yitzhak Sadeh
Questi militari legarono con quanti noi oggi chiameremmo “orientalisti”, conoscitori del mondo arabo in generale e dei palestinesi in particolare, sia perché provenienti essi stessi da paesi arabi, sia perché esperti nel campo degli studi mediorientali, il nome di alcuni dei quali incontreremo in seguito.

Sia gli ufficiali che gli esperti erano assistiti da comandanti regionali, come Moshe Kalman, che ripulì la zona di Safad, e Moshe Carmel, che spopolò la maggior parte della Galilea. Yitzhak Rabin operò tanto a Lyyd quanto a Ramla, come pure nell’area della Grande Gerusalemme. Ricordatene i nomi, ma cominciate a non considerarli solo come eroi di guerra israeliani. Hanno di certo partecipato alla fondazione dello Stato ebraico ed è comprensibile che gli stessi israeliani diano il giusto valore alle azioni che li hanno aiutati a salvarsi da attacchi esterni, permettendogli di superare le crisi e soprattutto di trovare un rifugio sicuro dalle persecuzioni religiose in diverse parti del mondo. 
Ma la storia giudicherà il peso di queste conquiste quando sull’altro piatto della bilancia ci saranno i crimini da loro commessi contro il popolo nativo della Palestina. 
Tra gli altri comandanti regionali troviamo Shimon Avidan, che operò nel Sud e che Rehavam Zeevi – suo compagno di battaglie – ricordava molti anni dopo come «Comandante della brigata Givati, che ripulì il fronte da decine di villaggi e città». 
Era assistito da Yitzahak Pundak, che nel 2004 dichiarò su «Ha’aretz»: «C’erano duecento villaggi [sul fronte] e sono stati spazzati via. Abbiamo dovuto distruggerli altrimenti avremmo avuto qui gli arabi [cioè nella parte meridionale della Palestina] come li abbiamo in Galilea. Avremmo avuto un altro milione di palestinesi».
E inoltre c’erano gli ufficiali dei servizi segreti. Invece di limitarsi a raccogliere informazioni sul “nemico”, non solo ebbero un ruolo di primo piano nella pulizia etnica, ma parteciparono anche ad alcune delle peggiori atrocità parallele alla sistematica evacuazione dei palestinesi. Veniva lasciata loro l’autorità di decidere quali villaggi distruggere e quali abitanti giustiziare. 
Secondo quanto ricordano i sopravvissuti palestinesi, dopo che un villaggio o un quartiere era stato occupato, stava a questi decidere se il destino finale degli abitanti sarebbe stata la reclusione o la libertà, la vita o la morte. 
Nel 1948 Issar Harel – poi divenuto primo capo del Mossad e del Shabak, i servizi segreti israeliani – supervisionava le operazioni di questi ufficiali. 
La sua figura era ben nota a molti israeliani: basso e tozzo, nel 1948 era solo colonnello, ma malgrado ciò era l’ufficiale di più alto grado a sovrintendere gli interrogatori, a preparare le liste nere e ogni altra forma di oppressione dei palestinesi sotto l’occupazione israeliana.

LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA di ILAN PAPPE' 1° parte


INTRODUZIONE DOVEROSA E PERSONALE:
Quello che racconta Pape' nei suoi libri è un'altra verità che non troverete mai nella storiografia ufficiale, proprio perché scritta da un intellettuale ebreo dissidente, quindi non accusabile di antisemitismo, SEMMAI, di antisionismo. Una verità scomoda ed allo stesso tempo atroce, che lascia senza fiato, ma sempre documentatissima e molto centrata.
Mi limiterò a pubblicare in questa 1° parte la prefazione tratta dal suo libro "La pulizia etnica della Palestina", perché merita di essere conosciuto più di quanto non lo sia oggi, essendo stato isolato dal mainstream e, comunque, conosciuto solo da una nicchia di lettori e addetti ai lavori che, puntualmente e salvo rare eccezioni, evitano di citarlo.
Nella speranza di fornire qualche spunto di riflessione, senza mai voler scadere nell'odio gratuito quanto inutile.
In questo modo è possibile arrivare alla genesi del conflitto, senza essere accusati vigliaccamente di antisemitismo, favorendo anche tutti quegli israeliani democratici che oggi lottano per destituire l'attuale premier in patria.
La genesi del conflitto, da quando nacque lo Stato di Israele, ha risvolti molto simili all'attuale conflitto in corso.
Personalmente, amo la cultura ebraica, il loro cosmopolitismo, la loro capacità di unione fraterna, il loro ingegno, la loro capacità di risollevarsi da qualsiasi tragedia subita, come mi sento vicino ad un certo mondo intellettuale ed artistico, compreso il loro umorismo surreale.
Purtroppo, conosco molto bene la tragedia delle deportazioni nazifasciste della 2° Guerra Mondiale, dato che mia nonna paterna rischiò di finire in un lager, avendo un cognome ebreo.
Sono semplicemente molto critico sul sionismo che, nella sua accezione più estrema e fondamentalista, si rivela in primis il peggior alleato di Israele e della religione ebraica, oltre ad aver causato massacri e guerre senza fine alle popolazioni native di Palestina.
Mi sento vicino a Pappe' ma anche, per esempio e tra i tanti, a Moni Ovadia, orgoglioso e fiero ebreo dissidente contro le derive reazionarie e autoritarie del suo paese.
Se vogliamo ripartire da zero e, quindi dalla ricostruzione di una pace realistica e duratura tra le due popolazioni, bisognerà iniziare seriamente a studiare la storia del 48, gli orrori silenziati, le deportazioni di massa, le stragi, senza occultare più nulla, con coraggio e senza falsi pudori, perché la verità ci renderà liberi, almeno un po' più di prima.
Spero vivamente!

BIOGRAFIA ILAN PAPPE':
Ilan Pappé è uno dei maggiori storici del Medio Oriente. Intellettuale e studioso socialista, ebreo e anti-sionista, di formazione comunista, è uno dei rappresentanti della cosiddetta Nuova storiografia israeliana. Nato ad Haifa da genitori ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista, ha conseguito il dottorato a Oxford. Nel 2005 ha sostenuto il boicottaggio di Israele e per questo, dopo aver insegnato per anni a Haifa, si è dovuto trasferire in Gran Bretagna, all’Università di Exeter. 
Docente di Storia all’Istituto di studi arabi e islamici presso il College of Social Sciences and International Studies e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeter, ha pubblicato numerosi saggi. 
Fra le sue opere tradotte in italiano, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (Einaudi, 2005), La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008); con Noam Chomsky ha scritto Ultima fermata Gaza (Ponte alle Grazie, 2010) e Palestina e Israele: che fare? (Fazi 2015). Nel 2022 Fazi pubblica La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, entrato nelle classifiche di vendita a ottobre 2023 a causa del drammatico riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese.

INTRODUZIONE AL LIBRO (PREFAZIONE):
La Casa Rossa era un tipico edificio dell'antica Tel Aviv. 
Orgoglio dei costruttori e degli artigiani ebrei che l'avevano fabbricato negli anni Venti, era stato destinato ad ospitare la sede del locale consiglio dei lavoratori. Tale rimase finché, verso la fine del 1947, divenne il quartiere generale dell'Haganà, la principale organizzazione armata clandestina sionista in Palestina. 
Situato vicino al mare, sulla Yarkon Street, nella parte nord di Tel Aviv, l'edificio costituisce un'ulteriore gradevole aggiunta alla prima città “ebraica” sul Mediterraneo, la “Città Bianca”, come la chiamavano affettuosamente i suoi letterati ei suoi notabili. 
In quei giorni, infatti, a differenza di oggi, il biancore immacolato delle sue case inondava ancora l'intera città nell'opulenta luminosità tipica dei porti del Mediterraneo di quell'epoca e di quella regione. Era una vista gradevole, un'elegante fusione di motivi Bauhaus con l'originaria architettura palestinese, in una mescolanza che veniva chiamata levantina nel senso meno spregiativo del termine. Tale era anche la Casa Rossa, con i suoi semplici tratti rettangolari, abbelliti da archi frontali che incorniciavano l'ingresso e sostenevano i balconi dei due piani superiori. Forse era stata l'associazione con un movimento di lavoratori ad aver ispirato l'aggettivo “rossa”, o forse era la sfumatura rosa che assumeva al tramonto ad aver dato alla casa il suo nome. 
La prima ipotesi è la più attendibile in quanto l'edificio continuò ad essere associato alla versione sionista del socialismo quando, nel 1970, divenne l'ufficio centrale del movimento israeliano dei kibbutz. Case come questa, importanti resti storici del periodo del Mandato britannico, hanno spinto l'UNESCOa dichiarare nel 2003 Tel Aviv patrimonio dell'umanità.

Oggi la casa non c'è più, vittima dello sviluppo che ha raso al suolo quell'edificio storico per far posto a un parcheggio vicino al nuovo hotel Sheraton. Quindi, anche in questa strada, non è rimasta alcuna traccia della Città Bianca, che si è lentamente trasformata, come per magia, nella dilagante, inquinata e stravagante metropoli che è la moderna Tel Aviv.
In questo palazzo, il 10 marzo 1948, in un freddo pomeriggio, un gruppo di undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali militari ebrei, diedero il tocco finale al piano di pulizia etnica della Palestina. 
La stessa sera trasmessa alle unità sul campo gli ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei palestinesi da vaste aree del territorio. Gli ordini erano accompagnati da una minuziosa descrizione dei metodi da usare per cacciar via la popolazione con la forza: intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno
A ciascuna unità venne dato un elenco di villaggi e quartieri urbani quali obiettivi del piano generale. Denominata nel codice Piano (Daletin ebraico), questa era la quarta e ultima versione di piani meno sofisticati che stabilivano il destino che i sionisti avevano in serbo per la Palestina e per la sua popolazione nativa. I tre piani precedenti non avevano delineato chiaramente come la direzione sionista pensava di affrontare la presenza di una popolazione palestinese tanto numerosa che viveva sulla terra agognata come propria dal movimento nazionale ebraico. Quest'ultimo e definitivo progetto dichiarava in modo esplicito e senza ambiguità: i palestinesi devono andarsene. Simcha Flapan, uno dei primi storici che notò l'importanza del piano, rivela: «La campagna militare contro gli arabi, inclusa la “conquista e distruzione delle aree rurali” fu avviata dal Piano Dalet dell'Haganà». 
L'obiettivo era la distruzione delle aree rurali e urbane della Palestina.

Come cercherò di dimostrare nei primi capitoli di questo libro, il piano era da un lato il prodotto inevitabile della determinazione ideologica sionista ad avere un'esclusiva presenza ebraica in Palestina, dall'altro una risposta agli sviluppi sul campo dopo che il governo britannico aveva deciso di porre fine al Mandato. Gli scontri con le milizie palestinesi locali fornirono il contesto e il pretesto perfetti per realizzare la visione ideologica di una Palestina etnicamente ripulita. La politica sionista iniziò come rappresaglia contro gli attacchi palestinesi nel febbraio del 1947 e si trasformò in seguito in un'iniziativa di pulizia etnica dell'intero paese nel marzo del 1948.
Presa la decisione, ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti. Il piano, deciso il 10 marzo 1948, e soprattutto la sua sistematica attuazione nei mesi successivi, fu un caso lampante di un'operazione di pulizia etnica, considerata oggi dal diritto internazionale un crimine contro l'umanità.
Dopo l'Olocausto è diventato quasi impossibile occultare crimini contro l'umanità su larga scala. Il nostro mondo moderno, dominato dalla comunicazione, specialmente dopo l'avvento dei media elettronici, non permette più che le catastrofi prodotte dall'uomo rimangano nascoste al grande pubblico o vengano negate. 
Invece uno di questi crimini è stato quasi completamente cancellato dalla memoria pubblica mondiale: l'espropriazione delle terre dei palestinesi da parte di Israele nel 1948. 
Questa vicenda, la più decisiva nella storia moderna della terra di Palestina, è stata da allora sistematicamente negata, e ancora oggi non è riconosciuto come un fatto storico e tantomeno ammessa come un crimine con il quale è necessario confrontarsi sia politicamente sia moralmente.

La pulizia etnica è un crimine contro l'umanità e le persone che oggi lo commettono sono premurose dei criminali da portare davanti a tribunali speciali. Può essere difficile decidere come definire o come trattare, nella sfera legale, quanti iniziarono e perpetrarono la pulizia etnica in Palestina nel 1948, ma è possibile descrivere i loro misfatti e giungere a una ricostruzione storiografica più accurata di quelle fino a ora disponibili e a una posizione morale di maggiore integrità.
Conosciamo i nomi delle persone che sedevano in quella stanza all'ultimo piano della Casa Rossa, sotto manifesti in stile marxista, che proponevano slogan del tipo «Fratelli in armi» e «Pugno di acciaio» e ostentavano i «nuovi» ebrei – muscolosi, robusti e abbronzati – con i fucili puntati da dietro barriere protettive nella «coraggiosa lotta» contro i «nemici arabi invasori». Conosciamo anche i nomi degli ufficiali superiori che eseguirono gli ordini sul campo. Sono tutte figure familiari nel pantheon dell'eroismo israeliano. Non molto tempo fa molti di loro erano ancora vivi e occupavano posizioni di primo piano nella politica e nella società israeliane; pochissimi sono oggi ancora in vita.
Per i palestinesi, e per chiunque altro rifiutasse di accettare la narrazione sionista, era chiaro, molto tempo prima che questo libro fosse scritto, che costoro erano autori di crimini, ma che erano riusciti a sfuggire alla giustizia e probabilmente non sarebbero mai stati sottoposti a giudizio per ciò che avevano commesso. Per i palestinesi, la forma più profonda di frustrazione, al di là del trauma, è stato il fatto che l'atto criminale di cui questi uomini furono responsabili sia stato totalmente negato e che la loro sofferenza sia stata completamente ignorata fin dal 1948.
Circa trent'anni fa, le vittime della pulizia etnica iniziarono a ricostruire il quadro storico che la narrazione ufficiale israeliana aveva cercato in ogni modo di nascondere e distorcere. 
La storiografia israeliana parlava di «trasferimento volontario» di massa di centinaia di migliaia di palestinesi che avevano deciso di abbandonare temporaneamente le loro case ei loro villaggi per osare via libera agli eserciti arabi invasori che puntavano a distruggere il neonato Stato ebraico. 
Nel 1970 gli storici palestinesi, in particolare Walid Khalidi, raccogliendo memorie e documenti autentici su quanto era accaduto al loro popolo, furono in grado di ricostruire una parte significativa dello scenario che Israele aveva cercato di cancellare. Essi furono però rapidamente messi in ombra dalle pubblicazioni come Genesi 1948 di Dan Kurzman, che apparve nel 1970 e nuovamente nel 1992 (questa volta con un'introduzione di uno degli esecutori della pulizia etnica della Palestina, Yitzhak Rabin, al tempo primo ministro di Israele). Ci fu però anche chi sostenne apertamente il punto di vista palestinese, come Michael Palumbo, il cui Il palestinese Catastrofe, pubblicato nel 1987, confermava la versione palestinese degli eventi del 1948 con l'ausilio di documenti dell'ONU e interviste a profughi ed esuli, le cui ricordi di quello che avevano subito durante la Nakba dimostravano di essere ancora ossessivamente vivide.
Negli anni Ottanta, la comparsa sulla scena israeliana della cosiddetta “nuova storia” avrebbe potuto imprimere una svolta importante nella lotta per la memoria in Palestina. 
Si trattava del tentativo, da parte di un piccolo gruppo di storici israeliani, di rivedere la narrazione sionista della guerra del 1948. Io ero uno di loro. 
Ma noi, i nuovi storici, non abbiamo mai contribuito in modo significativo alla lotta contro la negazione della Nakba perché abbiamo eluso la questione della pulizia etnica e, tipico degli storici diplomatici, ci siamo concentrati sui particolari. 
Tuttavia, utilizzando principalmente gli archivi militari israeliani, gli storici revisionisti sono riusciti a dimostrare quanto fosse falsa e assurda la pretesa israeliana che i palestinesi se ne fossero andati “volontariamente”, sono stati in grado di confermare molti casi di espulsioni di massa da villaggi e città e hanno rivelato che le forze ebraiche avevano commesso un gran numero di atrocità, massacri compresi.
Una delle figure più note tra quanti hanno scritto sull'argomento è lo storico israeliano Benny Morris. Basandosi esclusivamente su documenti degli archivi militari israeliani, Morris ha fornito alla fine un quadro molto parziale di quanto era accaduto sul campo. Eppure, tutto questo è stato sufficiente perché alcuni dei suoi lettori israeliani si rendono conto che la “fuga volontaria” dei palestinesi era un mito e che l'immagine che Israele aveva di sé, di aver condotto nel 1948 una guerra “morale” contro un mondo arabo “primitivo” e ostile, era notevolmente falsa e forse completamente superata.

Il quadro era parziale perché Morris prendeva alla lettera, o persino come verità assoluta, i rapporti dell'esercito israeliano che trovava negli archivi. Di conseguenza ignorò le atrocità come la contaminazione dell'acquedotto di Acri con microbi del tifo, numerosi casi di stupri e le decine di massacri perpetrati dagli ebrei
Egli continuò a insistere – sbagliando – che prima del 15 maggio 1948 non c'erano state espulsioni forzate. Le fonti palestinesi indicano chiaramente che mesi prima dell'ingresso delle milizie arabe in Palestina, e quando ancora gli inglesi erano responsabili della legge e dell'ordine nel paese – quindi prima del 15 maggio –, le truppe ebraiche erano già riuscite a espellere forzatamente circa 250.000 palestinesi
Se Morris e gli altri avessero utilizzato le fonti palestinesi o fossero ricorsi alla storia orale, sarebbero stati in grado di giungere a una migliore conoscenza della pianificazione sistematica che era dietro l'espulsione dei palestinesi nel 1948 e di fornire una descrizione più veritiera dell'enormità dei crimini commessi dai soldati israeliani. 
C'era allora, e c'è tuttora, un'esigenza, tanto storica quanto politica, di andare al di là di descrizioni come quella che troviamo in Morris, non solo al fine di completare il quadro (in realtà di fornirne l'altra metà), ma anche – e molto più importante – perché non c'è altro modo, per noi, di capire fino in fondo le radici dell'attuale conflitto israelo-palestinese. Soprattutto però, c'è ovviamente un imperativo morale di continuare la lotta contro la negazione del crimine. Il tentativo di andare oltre è già stato avviato da altri.
Il lavoro più importante, come era da attendersi, visti i suoi significati contributi precedenti alla lotta contro la negazione, è stato il libro fondamentale di Walid Khalidi: Tutto Quello Resti. Si tratta di un elenco dei villaggi distrutti, che è ancora una guida essenziale per chiunque voglia comprendere l'enormità della catastrofe del 1948.
Si potrebbe affermare che la storia già emersa è di per sé sufficiente per far sorgere interrogativi inquietanti. Tuttavia, la “nuova storia” e i recenti contributi storiografici palestinesi non sono riusciti a far breccia nell'ambito della coscienza pubblica e dell'azione morale. In questo libro voglio esplorare sia il meccanismo della pulizia etnica del 1948, sia il sistema cognitivo che ha permesso al mondo di dimenticare e dato ai responsabili la possibilità di negare il crimine commesso dal movimento sionista contro il popolo palestinese nel 1948.

In altre parole voglio sostenere la fondatezza del paradigma della pulizia etnica e usarlo per sostituire il paradigma della guerra come base per la ricerca accademica e per il dibattito pubblico sul 1948. Non ho dubbi che l'assenza fino a oggi del primo paradigma sia legato alla ragione per cui la negazione della catastrofe ha potuto continuare così a lungo. 
Nel creare il proprio Stato-nazione, il movimento sionista non condusse una guerra che “tragicamente, ma inevitabilmente” portò all'espulsione di parte della popolazione nativa, ma fu l'opposto: l'obiettivo principale era la pulizia etnica di tutta la Palestina , che il movimento ambiva per il suo nuovo Stato. Alcune settimane dopo l'inizio delle operazioni di pulizia etnica, i vicini Stati arabi inviarono un piccolo esercito – piccolo in proporzione alla loro forza militare complessiva – per cercare inutilmente di impedirla. 
La guerra con gli eserciti arabi regolari non mise fine alle operazioni di pulizia etnica fino a queste quando non furono completate con successo nell'autunno del 1948.
Questa impostazione – adottare il paradigma della pulizia etnica come base di partenza per la narrazione del 1948 – qualcuno potrà sembrare come un'imputazione già dall'inizio. 
A ogni modo il mio J'accusare è realmente diretto contro i politici che progettarono ei generali che perpetrarono la pulizia etnica. Eppure, quando faccio i loro nomi non lo faccio perché voglio che siano sottoposti a un processo postumo, ma allo scopo di umanizzare tanto le vittime quanto i carnefici: voglio evitare che i crimini commessi da Israele siano attribuiti a fattori elusivi quali “le circostanze”, “l'esercito” o, come la pone Morris, “UN la guerra vieni UN la guerra” e simili vaghi riferimenti che deresponsabilizzano gli Stati sovrani e permettono agli individui di sfuggire alla giustizia. 
Io accuso, ma faccio anche parte della società che è condannata in questo libro. 
Mi sento responsabile e parte della storia e, come altri nella mia stessa società, sono convinto che un simile doloroso viaggio nel passato è il solo percorso che abbiamo di fronte se vogliamo creare un futuro migliore per tutti noi, palestinesi e israeliani. 
Di ciò tratta, in fondo, questo libro.
Non mi risulta che in precedenza qualcuno abbia mai tentato questa impostazione. 
Le due narrazioni storiche ufficiali in competizione su quel che accadde in Palestina nel 1948 ignorano entrambe il concetto di pulizia etnica. 
Da un lato la versione sionista-israeliana sostenendo che la popolazione locale se ne andò “volontariamente”, dall'altro i palestinesi parlano di una “catastrofe” che li colpì, la Nakba. Il termine Nakba è stato adottato, per comprensibili ragioni, come tentativo di controbilanciare il peso morale dell'Olocausto ebraico (Shoah), ma l'aver trascurato i protagonisti può in un certo senso aver contribuito a perpetuare la negazione da parte del mondo della pulizia etnica della Palestina nel 1948 e successivamente.
Il libro si apre con una definizione di pulizia etnica che spero sia abbastanza trasparente da essere accettata da tutti, definizione che è servita come base per le azioni legali contro gli esecutori di simili crimini nel passato e ai nostri giorni. Può sorprendere che il classico discorso giuridico, complesso e (per molti esseri umani normali) impenetrabile, è qui sostituito da un linguaggio chiaro, privo di espressioni gergali. Tale semplicità non minimizza l'orrore dei fatti e non attenua la gravità del crimine. Al contrario: il risultato è una descrizione onesta di una politica atroce che la comunità internazionale oggi si rifiuta di perdonare.

La definizione generale di che cosa è la pulizia etnica si applica quasi alla lettera al caso della Palestina. In quanto racconto, la storia di quello che accadde nel 1948 emerge come un capitolo non complicato, ma niente affatto, di conseguenza, semplificabile o secondario nella storia dell'espropriazione della Palestina. 
In realtà, l'adozione del prisma della pulizia etnica permette facilmente di penetrare il manto di complessità che i diplomatici di Israele quasi istintivamente si esibiscono e dietro il quale gli accademici di Israele si nascondono abitualmente nel respingere i tentativi esterni di criticare il sionismo e lo Stato ebraico per la sua politica e il suo comportamento. 
«Gli stranieri», dicono nel mio paese, «non capiscono e non possono capire questa storia sconcertante» e quindi non occorre nemmeno tentare di spiegargliela. Né permettono loro di intervenire nei tentativi di risolvere il conflitto – a meno che non accettino il punto di vista di Israele. Tutto quanto possono fare, come i nostri governi dicono al mondo da anni, è di permettere a “noi”, gli israeliani, in quanto rappresentanti della parte “civilizzata” e “razionale” nel conflitto, di trovare una soluzione equa per “noi stessi” ” e per l'altra parte, i palestinesi, che in definitiva compendiano il mondo arabo “non civilizzato” ed “emotivo” al quale appartiene la Palestina. Da quando gli Stati Uniti si sono dimostrati pronti ad adottare questo approccio perverso e ad avallare l'arroganza che lo sostiene, abbiamo avuto un “processo di pace” che non ha portato, e non poteva portare, da nessuna parte, dal momento che ignora totalmente il nocciolo del problema.
Ma la storia del 1948 non è per niente complicata e quindi questo libro è scritto sia per quanti vi si avvicinano per la prima volta, sia per quanti, già da molti anni e per varie ragioni, sono stati coinvolti nella questione palestinese e nei discorsi su venire a una soluzione. È nostro dovere strappare dall'oblio la semplice ma orribile storia della pulizia etnica della Palestina, un crimine contro l'umanità che Israele ha voluto negare e far dimenticare al mondo. Non tanto per un atto di ricostruzione storiografica o per un dovere professionale, ma per una decisione morale, in assoluto il primo passo da compiere se vogliamo che la riconciliazione possa avere una possibilità e la pace possa mettere radici nelle terre lacerate di Palestina e Israele.

giovedì 28 marzo 2024

L'ATTENTATO DI MOSCA E IL CROLLO DEL PONTE DI BALTIMORA



MOSCA 22 MARZO 2024:
La Russia in lutto e sotto shock. Sono 139 le vittime dell'attentato di venerdì 22 Marzo sera al Crocus City Hall di Mosca, il peggior attacco terroristico nella storia del paese da oltre un decennio. Secondo le Intelligence ed i media occidentali la responsabilità è dell' Isis-K che ha rivendicato l’attentato tramite il canale Amaq. Invece, il Cremlino sembra concentrare la sua attenzione sull’Ucraina, alimentando il timore che Mosca voglia attribuire a Kiev l’intera operazione per giustificare un’ulteriore escalation nel conflitto in corso.
Quattro persone di nazionalità tagika arrestate dai servizi di sicurezza (FSB) sono apparsi domenica in tribunale, gonfi in volto, con lividi e segni di tagli, uno in sedia a rotelle. 
Per loro è stata formulata l'imputazione per terrorismo e sono attualmente detenuti in custodia cautelare.
Isis-Khorasan, il ramo dell'organizzazione terroristica attivo principalmente in Afghanistan e nel Caucaso, ha rivendicato l'attacco, pubblicando prima le foto degli attentatori e poi un video dell'assalto dalla prospettiva dei terroristi
Politici russi accusano l'Ucraina di essere coinvolta. Kiev nega decisamente ogni addebito, ma fonti di intelligence Usa confermano la presenza di un “flusso costante di informazioni, fin da novembre, sull'intenzione dell'Isis di colpire in Russia”, informazioni che sarebbero state condivise con Mosca.

L'ISIS QUESTO SCONOSCIUTO:
Questa è la narrazione ufficiale dei media e delle rispettive propagande, ma noi dobbiamo capire una volta per tutte cosa significa ISIS.
L'ISIS è una fantomatica agenzia transnazionale che arruola fanatici disposti a tutto, mercenari islamisti che si prestano al ruolo di candidati manciuriani, che forse sanno di esserlo, forse no, visto il livello culturale che li distingue. Sicuramente lo sanno i loro mandanti e padroni che, in un network labirintico del terrore, vantano collegamenti con l'occidente, il medioriente ed oltre. Potremmo definirlo una sorta di moderna Spectre, con la sua gerarchia piramidale e devoti sacrificabili, talvolta ricattati e costretti a morire per cause ignote, vendute come guerre religiose e scontro di civiltà.

IL DOMINIO DELLE SOVRAGESTIONI:
Cui prodest le gesta di questa agenzia terroristica transnazionale?
Sicuramente non giova alle vittime dei loro attentati, non giova alla causa islamica, ma giova, gioco forza, ai complessi militari che producono e vendono armi, compresa tutta la variegata filiera annessa. Giova alle sovragestioni che gestiscono le superpotenze, tramite i Servizi deviati a loro collegati, dove troviamo al loro interno le Ur-logge di riferimento e tutte le multinazionali di un certo peso, compreso il network mondiale del narcotraffico e della vendita di organi umani. 
Tutti questi attori sono coloro che traggono vantaggio, in modo più o meno diretto, dagli effetti di attentati terroristici.
Oggi, l'Ucraina è data per spacciata da tutte le Intelligence e dall'evidenza dei fatti.
Gli USA non sembrano più interessati a finanziare i loro armamenti, preferendo se ne occupi l'Europa, oltretutto ci sono le elezioni americane alle porte e, soprattutto, l'Ucraina è stata completamente comprata, visto che si occuperanno di ricostruirla e di utilizzarla ancora come terra di mezzo per diversi traffici illegali (armi, strategie geopolitiche, droga, virus, pedofilia). 
Peccato che il Military–industrial complex voglia continuare questa strategia dell'orrore per alimentare guadagni e certificare vecchi e nuovi rapporti di forza nello scacchiere internazionale. 
Quindi, giova in primis al grande intreccio di affari in corso e, come fu per la vendita dei vaccini, le multinazionali impegnate in questa vasta operazione bellica sono arpie pronte a tutto pur di continuare i conflitti in corso.
Gli Stati Paralleli di ogni nazione sono intimamente collegati alle sovragestioni transnazionali che li contengono all'interno delle loro piramidi di potere. 
Gli avatar governativi e politici vengono in secondo piano, compresi tutti i leader politici che conosciamo e, volenti o nolenti, sono anch'essi subordinati. Ricevono ordini, devono rispettare agende, sono ricattati e minacciati in continuazione.
Chi pensa che i conflitti siano decisi dai leader politici non ha compreso le sofisticate dinamiche del potere globale, e si limita al gossip ed al campanilismo di una fazione rispetto ad un'altra.
Il Military–industrial complex è una costola importante delle sovragestioni, essendo a sua volta sovragestione militare transnazionale, ed è deputato a creare scenari bellici per conto degli interessi condivisi dallo stesso network.
Il terrorismo internazionale è quindi un'arma importante plasmata dai Servizi deviati per conto di queste entità superiori, e in scala lo stesso meccanismo avviene per il terrorismo interno, vedi storia della strategia della tensione, che è anch'esso plasmato ed infiltrato per essere utilizzato a vantaggio dello status quo.

LE TRE VERITA':
Tornando all'attentato di Mosca, chi potrebbero essere i mandanti?
Vediamo di teorizzare 3 possibilità:
1- Proprio perché storicamente il terrorismo serve a stabilizzare e celebrare lo status quo, se questa nuova ondata di attentati colpirà, come in passato, anche paesi occidentali, i mandanti potrebbero essere gli USA e l'Inghilterra, insieme alla loro filiera diversamente declinata, che comprende anche paesi arabi oltre a diversi paesi allineati.
Questi governi sarebbero, come spiegato precedentemente, il mezzo per portare avanti l'agenda delle rispettive sovragestioni e non l'apice della piramide, pur essendo importanti pedine con il loro peso specifico.

2- Se l'attentato o eventuali futuri attentati, saranno confinati solo sul territorio russo, i mandanti potrebbero essere quelli della fazione opposta, ovvero le sovragestioni che hanno in Putin il loro avatar principale. In questa possibilità, la Russia verrebbe percepita dai media e dal mondo come vittima e non più solo come carnefice, e in patria, Putin come il salvatore dei due mondi. Quindi, sarebbe valida la suggestione di una false flag, ovvero, della strategia della tensione interna, nella sua accezione classica di cristallizzazione del potere ad libitum, anche e soprattutto simbolicamente nell'inconscio collettivo di un popolo.

3- La terza suggestione potrebbe riguardare la famosa strategia delle convergenze parallele, ovvero, un interesse comune nel creare caos per giustificare un inasprimento del conflitto, compresi paventati scenari nucleari. Una sorta di condivisione di regole, dove ognuno se la gioca e vinca il più forte, per stabilizzare i ruoli in campo e certificare nuovi rapporti di forza nel risiko globale, nel futuro Nuovo Ordine Mondiale. 
L'occidente, gli USA, la corona inglese, Israele per conservare l'attuale leadership nello scacchiere internazionale, la Russia per ricrearsi quell'egemonia perduta, annettendosi i paesi satellite.
In questo caso le agenzie del terrore come l'ISIS, o la nuova variante ISIS K, sarebbero, come descritto, solo il mezzo arruolato all'uopo per velocizzare il processo in atto.
Lo stesso meccanismo sta avvenendo nel conflitto Israelo palestinese, dove Hamas, in una delle sue diverse declinazioni, diventa agenzia del terrore, in qualche modo manipolata dal nemico israeliano, e serve a giustificare l'attuale occupazione di Gaza, oltre che alimentare se stessa ed il proprio potere interno. Potere che poi sfruttano i suoi mandanti esteri, con il culo al caldo per alimentare altri rapporti di forza nel fragile e compromesso castello di carte mediorientale. Israele negli anni passati ha finanziato Hamas, osteggiando il processo di pace.

LA "CHAT ESOTERICA" DELLA SOVRAGESTIONE:
Le sovragestioni oltre a creare ed utilizzare i propri candidati manciuriani, in modo che i paesi sotto il loro controllo possano portare avanti le rispettive agende globaliste e di spartizione, necessitano di comunicazione simbolica, di messaggi, diciamo, abbastanza peculiari.
Questa comunicazione subliminale e simbolica non avviene tramite telefonate di ambasciata, ma tramite avvenimenti shock mediatici, come sciagure, delitti rituali, incidenti apparentemente casuali, ma sempre molto sincronici.
Questi eventi veicolati in mondovisione agiscono nell'inconscio collettivo delle popolazioni e servono a far metabolizzare i nuovi cambiamenti, che poi saranno accettati dalla maggioranza dell'opinione pubblica, quando si passerà alla fase successiva. 
Nei piani alti servono a celebrare e stabilire nuove tappe, passaggi e mutamenti geopolitici.
Una sorta di messa rovesciata con i propri rituali e con i propri corpi sacrificali, come d'altro canto avviene per le religioni, con una garanzia di funzionamento di almeno 2000 anni, ma potremmo estendere i millenni all'era romana e, ancor prima, quella babilonese. 
Il plagio emozionale è una garanzia che non scade mai. 
Ecco che il crollo del ponte di Baltimora, potrebbe far da contraltare comunicativo/bellico all'attentato di Mosca, pur essendo apparentemente due episodi completamente differenti.

IL CROLLO DEL PONTE E' CRISI GLOBALE:
Il governatore del Maryland, Wes Moore, ha sottolineato l'importanza del porto di Baltimora per l'economia Usa e internazionale. "Il crollo del Key Bridge non è solo una crisi del Maryland. Il crollo del Key Bridge è una crisi globale. L'economia nazionale e l'economia mondiale dipendono dal porto di Baltimora"
Il ponte non è solo un’opera d’ingegneria, ma ha un significato simbolico come ponte della memoria, perché a livello ancestrale è collegato ad un luogo significativo come era il castello, rinato a difesa del passato. Contemporaneamente rappresenta il passaggio verso il futuro. 
Il crollo del ponte rappresenta una scissione, una rottura dell'ordine costituito, quindi una nuova fase all'interno dello scontro in atto. Forse un segnale che qualcosa si è interrotto ed ora bisogna alzare il tiro e passare alla nuova fase bellica.
Questo a prescindere sia stato un incidente casuale o programmato e, personalmente, ritengo più logica la seconda possibilità. Comunque, in entrambi i casi, il messaggio è stato recapitato e le sovragestioni aspettano di raccoglierne i frutti.
La primavera è alle porte, il grande Moloch ha ancora fame.



mercoledì 13 marzo 2024

OSCAR DI PROPAGANDA


"Continua ad esserci quel messaggio. Quel preciso messaggio.
Oppenheimer e l'atomica. Pluripremiato.
Strane creature a seguire (coloro che modificano il DNA tra nucleare e transumanesimo). E circolano liberamente nei mondi.
E il Terzo arrivato "La zona d'interesse" per tutti gli internati dopo la chiusura delle frontiere e per chi non possiede il pass tecno-biologico.
Reclusione e controllo. Ovviamente tutte metafore in ben altro contesto storico. Si potrebbe istituire la coppa Davos. Con i simpatici burocrati del WEF. Tutti assieme appassionatamente. Come se il cinema fosse una zona astratta per agire il subconscio collettivo.
Così, per dire...
Buona Visione (quel nucleare, quella Atomica sarà molto probabilmente l'ennesimo false flag iper-spettacolarizzato, che riempirà ore ed ore di informazione, dirette e fiumi d'inchiostro dei giornali, vuoi vedere?)".
cit. Mantenos Andrea Flower Naborovich

Nolan si è venduto al transumanesimo e alla logica mondialista, infatti ha vinto con un film, secondo me, molto sopravvalutato, ambiguo, che sdogana a livello di psicologia di massa il nucleare. La bomba atomica diventa così, nonostante dubbi esistenziali, critiche e mille sfumature, un dato di fatto dal quale non si può prescindere.
Questo non avviene per caso, ma in un periodo storico che vede il ritorno del tema "guerra nucleare" nel dibattito politico e geopolitico.
Nolan è sicuramente un ottimo regista, l'ho amato per "Inception" e "Memento", ma pare essere diventato ultimamente lo strumento estetico di una certa vulgata.
Altri produttori hanno fatto la stessa operazione su Netflix, Disney Channel e tante altre piattaforme, prima della pandemia, presentando decine di serie TV che trattavano di virus, vaccini, quarantene, utilizzando lo stesso linguaggio operativo poi avvenuto nella realtà. Questo paradigma è servito e serve a far accettare i cambiamenti di ogni genere nella nostra società, facendo metabolizzare le nuove sciagure come fatti imprescindibili ed ineluttabili.
A differenza del bel film di Lanthimos, "Povere Creature", anch'esso di propaganda transumanista e woke, ma che presenta diversi contenuti rivoluzionari e di rottura, quello di Nolan non mi ha affatto convinto. L'ho trovato molto noioso, ridondante, con un sonoro asfissiante, esteticamente pomposo, barocco e manieritistico.
Molto interessante invece quello del nostro Garrone che, al contrario di quello che si poteva pensare e del tema trattato, non è affatto un'opera di propaganda pro-immigrazionista, è un film sulla sofferenza e sulla tragedia degli uomini, sullo sfruttamento e sull'illusione di trovare un paradiso altrove che non c'è, mentre nel lungo viaggio di speranza, si trovano solo inferni più o meno spaventosi. Non a caso non lo hanno considerato, ed è una favola terribile sulla disperazione umana che, ad essere sinceri, non motiva nessuno ad intraprendere il viaggio della morte con tutte le difficolta che presenta.
Una fiaba horror con un lieto fine, una speranza, forse solo apparente.

Un altro film completamente bistrattato, probabilmente per l'argomento scottante che veicolava, è stato "Killers of the flower Moon" del grande maestro Scorsese.
Bisognava oscurare Scorsese, vedetelo se non lo avete ancora fatto.
Nonostante la lunghezza (poteva essere una buona mezz'ora più corto), va giù molto pesante contro il potere americano massonico e capitalista. Uno dei film sulla tragedia dei nativi d'America più intensi, critici e interessanti che sia mai stato realizzato.
Il titolo inglese (traducibile come “assassini del fiore di luna”) fa riferimento ai fiori violacei che, in certe fasi lunari, nascono nei campi dell'Oklahoma.
In realtà, parlando il film di omicidio massonico, il riferimento floreale e delle fasi lunari non è affatto casuale. Il film, metaforicamente e più o meno direttamente, parla della ROSA ROSSA, intesa come sistema di potere che agisce, tramite le deviazioni delle società iniziatiche, per eliminare chi si oppone al cammino dei predatori, sempre perfettamente integrato al sistema capitalista ed imperialista americano.
Oltretutto, per osmosi, “Assassini del fiore di luna” di Scorsese può essere preso ad esempio come analogia per l'attuale situazione israelo-palestinese, quindi meglio non premiarlo, troppo scomodo per l'elite pseudo-progressiste che governano Hollywood.
Mentre Barbie doveva essere un film di distrazione di massa su un post-femminismo posticcio e liberal borghese, tutto compresso nell'estetica nauseabonda di colori sgargianti e kitsch, dei luccichini e delle mossette da social, proprio per affondare il vero femminismo che, altrove, lotta all'ultimo sangue contro atavismi patriarcali. La cosiddetta società Woke, che poi è un'astrazione fatta divenire reale, serve anche a destrutturare dall'interno le lotte per l'uguaglianza, riducendole a macchietta, quindi sminuendone l'aspetto rivoluzionario originale, un po' come per l'antifascismo da operetta o il brand del Green per far accettare un rinnovato e colorato nuovo inquinamento, però realizzato dai cosiddetti BUONI.
Hollywood è sempre stata propaganda, spesso negli anni ha ricevuto vistosi finanziamenti dall'apparato militare per plasmare certi film di guerra, o per favorire certi modelli, ma un tempo c'era anche spazio per la critica sociale. Nel 1971, infatti, vinse l'oscar come miglior film straniero il grande capolavoro di Elio Petri "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto", opera indipendente e rivoluzionaria.
Erano altri tempi, sicuramente c'era più libertà espressiva e questo possiamo misurarlo anche attraverso le produzioni che oggi vengono premiate e veicolate.




domenica 10 marzo 2024

LA FORNERO E LA RESILIENZA DEI SUDDITI

               

L'odio profondo che nutro verso i neoliberisti "aristocratici" è forse superiore all'odio che nutro istintivamente verso qualsiasi dittatura.
Per esempio, ascoltando la Fornero che risponde malamente, evadendo la domanda sull'importanza dello Stato sociale, mi sale una scarica elettrica lungo il collo, simile alla cervicale, mi si gonfiano i linfonodi e le tempie mi pulsano.
Come rispondono i neoliberisti come lei ad una domanda del genere?
Evitano accuratamente di parlare di salari, di inflazione, di povertà generale, di sistema capitalista predatorio ed inumano, ti tirano fuori la parità tra uomini e donne ancora da colmare, ti dicono che siamo fortunati a non essere sotto una dittatura come la Russia e, dulcis in fundo, che un tempo il suo primo stipendio arrivò pure in ritardo.
Come per dire, ringraziate che oggi vi pagano puntualmente a fine mese (sottinteso, dovreste lavorare gratis, cari miei sottoposti).
A parte che esistono migliaia di realtà lavorative dove questo non avviene. C'è gente che aspetta stipendi da mesi e da anni, che ha crediti verso aziende, cooperative e pure verso lo Stato, ma la cosa più grave è quella di non mettere MAI in discussione il nostro sistema e le sue grandi e gravi ingiustizie sociali.
Cosa si è inventato il potere costituito?
Ha oscurato l'annoso problema, sostenendo falsamente e strumentalmente i diritti civili, l'ambiente, facendo accettare ai sudditi un termine spaventoso, la RESILENZIA.
La resilienza ha sostituito, non casualmente, il termine RESISTENZA, che ha connotati più rivoluzionari.
Chi è più resiliente vince il premio e può sentirsi parte del sistema, ma difficilmente risolverà i suoi problemi economici.
Il cavallo di Troia dei tanto agognati diritti civili, del Green, del digitale, dell'AI e, prima ancora, della vaccinazione obbligatoria, rappresenta lo specchietto per le allodole per giustificare un sistema sempre più reazionario e classista.
In questo modo il sistema si presenta buono e compassionevole, moderno e progressista, potendo contrapporsi con altri sistemi dove la libertà non esiste.
Come per dire, inutile facciate resistenza, il nostro è il migliore dei mondi possibili, altrove è anche peggio, non può esistere nessuna messa in discussione dello status quo, pena essere classificati come passatisti, sovranisti, complottisti, rompicoglioni, ecc ecc...
Che poi è il classico assunto dei regimi quello di censurare qualsiasi criticità e di presentarsi come i meglio illuminati possibili.
La Fornero (nomen omen) è colei preposta a farci accettare questo brutto mondo, usando la RESILIENZA, ovvero l'accettazione di un regime sempre meno democratico e più ingiusto, perché sono i cosiddetti BUONI a chiederlo e ad imporlo alle masse.
Non solo, i cosiddetti BUONI, sono anche coloro che ammiccano ai diritti civili (senza mai risolverli, per esempio, economicamente) sbandierandoli perché non possono sbandierare altro.
Perché mentre li sbandierano, ti stanno togliendo potere d'acquisto e diritti sociali, lavoro, pensioni e felicità.
Senza considerare che proprio le sue infami riforme colpirono in primis proprio le donne e le madri di famiglia, altro che parità di genere.
Allora, quando sentite un neoliberista cianciare di economia, raccontando una fraccata di balle, dividendo la popolazione, scaricando la colpa di ogni cosa sui cittadini, voi pensate che quella persona è solo un fascista mancato, molto più raffinato e osceno di qualsiasi squadrista.
Ovviamente, la Fornero rappresenta solo l'ultimo anello di questo sistema, ci sono personaggi ben peggiori e osceni.
Lei è solo quella pagata per metterci la faccia e cianciare di economia, come quella volta che finse un irritante pianto di coccodrillo verso i suoi cari sottoposti!






mercoledì 6 marzo 2024

SERVI E "TERRORISTI"



Capitolo 3° della cosiddetta "Guerra Mondiale Infinita" e non dichiarata. 
Dopo la tragedia ucraina e palestinese, ecco che lo scenario si amplia e si sposta nel Mar Rosso, dove i pirati yemeniti colpiscono le nostre navi cargo che attraversano le rotte più importanti al mondo e collegano l'occidente all'oriente.
Dietro agli Houthi ci sono i mandanti iraniani che cercano in tutti i modi di ricattare le "forze del bene", affinché convincano Israele ad interrompere il massacro in atto a Gaza.
Se Israele non si fermerà, gli attacchi nel Mar Rosso continueranno, condizionando massivamente le economie di mezzo mondo.
A tal proposito, uno dei pochi che si è esposto sulla scena mainstream, uscendo fuori dal coro e dalle logiche reazionarie di propaganda sionista, è stato il prof. Orsini, oltre a Di Battista e Travaglio.

Ecco cosa dice senza mezzi termini il buon Orsini su questa vicenda e sul coinvolgimento dell'Italia nelle cosiddette missioni di pace:
"Sono formule piuttosto ipocrite perché l'Italia è pienamente coinvolta in questa guerra. L'Italia è nella guerra del Mar Rosso contro gli Houthi in una posizione defilata. 
Questa è la realtà dei fatti. Questa è la locuzione corretta: l'Italia è in guerra in una posizione di seconda linea. Tutte le volte che l'Italia ha partecipato a guerre l'ha sempre fatto utilizzando come formula la pace. Quindi l'Italia va in missione di pace però poi dà sostegno agli Stati Uniti che sparano sui talebani e così via in tante parti del mondo. 
Nel complesso penso che la linea dell'Italia sia sbagliata perché è una linea completamente a rimorchio della Casa Bianca. Quello che l'Italia dovrebbe fare è cercare di risolvere il problema alla radice perché gli Houthi hanno dichiarato che smetteranno di sparare i missili quando Israele cesserà di bombardare Gaza"

E ancora su Gaza:
"La presunta superiorità morale dell’Occidente riposa sotto il corpo di 12.000 bambini palestinesi trucidati da Israele con l’appoggio della Commissione europea e le armi della Casa Bianca". Così il professore e sociologo Alessandro Orsini ha scritto oggi sul Fatto Quotidiano, ricordando che la cosiddetta missione del ministro degli esterni Tajani contro gli Houthi nello Yemen non è altro che un modo per assicurare a Israele tutto lo spazio di manovra di cui ha bisogno per continuare i bombardamenti sulla striscia di Gaza.
"Bombardamenti che hanno già ucciso 27.000 palestinesi, tra cui 12.000 bambini. Israele ha causato anche l’amputazione di 1.000 bambini, molti dei quali senza anestesia, come testimonia il chirurgo britannico-palestinese Abu Sittah. 
Israele ha ridotto gli ospedali di Gaza al collasso causando persino la morte dei neonati nelle incubatrici sotto i colpi di una conclamata punizione collettiva". 
E tutto questo sta avvenendo nonostante "la Corte internazionale di giustizia dell’Onu abbia ingiunto a Israele di prendere tutte le misure in suo potere per impedire al suo esercito di commettere atti di genocidio" in Palestina.
Nel mentre la guerra in Ucraina prosegue: "Zelensky riceverà i cinquanta miliardi promessi dalla Commissione europea", ha sottolineato Orsini, ricordando che inizialmente il presidente dell'Ungheria Viktor Orban si era opposto ad ulteriori aiuti.
Al veto di Orban la Commissione europea ha risposto con il ricatto.
"Se Orban non avesse ritirato il veto, la sua economia e il suo governo avrebbero subito un attacco concentrico per danneggiare la prima e destabilizzare il secondo", ha scritto Orsini concludendo che "i ricatti e le minacce della Commissione europea contro l’Ungheria riconducono alla lezione fondamentale del realismo politico, secondo cui il diritto internazionale non è altro che il diritto del più forte".

Concludo, dicendo che condivido in toto il pensiero di Orsini sulle vicende in corso e che è triste notare come il circo mediatico, a parte poche e rare eccezioni, sia composto da servi sciocchi pronti a inchinarsi a qualsiasi comando d'oltre oceano, anche quando non è richiesto. In questo siamo i più zelanti.
Il vero problema è il conformismo, l'unica vera pandemia in corso che sembra non voler finire mai.
I prossimi fronti della Guerra Infinita saranno probabilmente ad estremo oriente. Si registrano tensioni tra le due Coree, tra Cina e Taiwan, ma anche in Pakistan che rimane una polveriera, per non parlare dell'instabilità di tutto il nord-Africa.
Avere la ragione sembra non contare più, la logica è diventata una bestemmia, se provi a sollevare qualsiasi dubbio sei, in ordine sparso: No vax, No global, terrapiattista, complottista, putiniano, filo Hamas, maschilista, sciovinista e pure un po' fascista.
Orwell è stato ampiamente superato dalla realtà.
Che D'IO ci salvi! 
cit. 




giovedì 29 febbraio 2024

L' OCCULTO IN GREMBO (ROSEMARY'S BABY) di Claudio Bartolini



L’occulto nel grembo
di Claudio Bartolini
Modernità occulta – Le radici simboliche delle arti contemporanee n. 5/2013
http://www.bietti.it/riviste/modernita-occulta-le-radici-simboliche-delle-arti-contemporanee/locculto-nel-grembo-di-claudio-bartolini/

In principio furono gli horror targati Universal, con il loro bianco/nero ad alto contrasto e i volti immortali di Boris Karloff, Lon Chaney Jr. e Bela Lugosi. 
Poi arrivarono la Hammer Films e Roger Corman, Mario Bava e George A. Romero, con le produzioni a costo zero, i remake dai colori sgargianti e quella violenza artigianale che in breve divenne culto. 
La Storia del Cinema ha sempre delegato ai prodotti di genere il ruolo di contenitore esoterico, depositario di quelle istanze sfuggenti e oscure che albergano sotto la superficie della pellicola. Se la fantascienza ha proiettato al di fuori del mondo conosciuto la propria sete di conoscenza e (di)svelamento, l’horror ha dato forma a creature di finzione sulle quali riversare istinti altrimenti deplorevoli, bassezze indegne di normali esseri umani e strutture psicofisiche immediatamente riconoscibili come diverse – e perciò pericolose. 
Dracula, la Mummia, le streghe, i “ritornanti”: proiezioni deformi del perturbante che alberga in ognuno di noi, incarnazioni delle paure e delle debolezze dell’uomo comune. Il mostro è ciò che non si conosce, destinato all’isolamento e, spesso, condannato a morte dalla comunità. È fuori, minaccioso: spetta così all’uomo lasciare la porta chiusa e respingere l’invasione.

Poi arriva Roman Polanski. E il mostro rientra. Nel 1968 approdano nelle sale due testi chiave dell’horror moderno: La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, G. A. Romero) e Rosemary’s Baby. Nastro rosso a New York (R. Polanski). Se il primo attesta la nascita del new horror, pregno di istanze sociali e politiche, il secondo sposta per sempre il baricentro teorico del discorso esoterico legato al cinema. Nella storia di Rosemary vengono meno le consuete rassicurazioni simboliche deputate all’allontanamento del mostro e gli argini individuali e comunitari collassano, fino a diventare i nuovi parametri costitutivi dell’altro da sé, che nel frattempo è diventato nuovo sé.
La logica sottesa al film è a chiara matrice esoterica, con rituali e messe nere, patti con il diavolo e affiliazioni ad una setta dedita alla stregoneria e disposta ad uccidere pur di mantenere la segretezza. Niente di inedito, nel panorama cinematografico, non fosse per l’elemento (chiave) capace di ribaltare i parametri abituali: il diverso non è al di fuori della vita di Rosemary, intento ad assediarne la proprietà e la psiche ma è dentro, nel condominio in cui lei e il marito Guy Woodhouse si sono trasferiti, nell’appartamento in cui abitano, nello stesso corpo che le consente di vivere. 
Durante i titoli di testa, Polanski compie una panoramica sui tetti di Manhattan, per poi fermarsi in prossimità del Dakota Building, dove i Woodhouse hanno preso dimora. 
A parte i riferimenti di rito all’Hitchcock di Psyco (1960), l’importanza di questo movimento di macchina risiede nell’esplicitare in partenza una chiara volontà dell’horror moderno: penetrare, violare le soglie (fisiche e simboliche), passando dall’esterno (lo skyline urbano) all’interno del Dakota, mostrato nella sequenza immediatamente successiva.
L’entrata, l’androne, il corridoio condominiale: Polanski esplora il sistema linfatico del corpo sociale di base (la casa) per poi penetrarlo del tutto ed entrare nell’appartamento in cui andranno ad abitare i Woodhouse, presentato allo spettatore come il luogo in cui, nell’Ottocento, vissero le sorelle cannibali Trench e l’esperto di stregoneria Adrian Marcato. “La chiamavano la casa del Diavolo”: da subito, il luogo eletto per il compiersi della prassi esoterica è il riferimento solido per eccellenza, il refugium, demolito nella sua istanza protettiva primaria. 
Una volta spalancate, le soglie dell’appartamento consentono l’ingresso al maligno e continui interscambi dimensionali (interno/esterno, come sonno/veglia) nella mente di Rosemary, alla quale la casa invia incubi, visioni e premonizioni soggioganti. Come già in Repulsion (1965), le mura domestiche polanskiane sono fucine allucinatorie e territorio compromettente per la stabilità emotiva del personaggio. 
Mentre la Carol di Catherine Deneuve sovrapponeva però il piano oggettivo alla delirante soggettività, fino al contatto con pareti antropomorfe, allo stupro immaginario ed al delitto vissuto ma mai veramente consumato, Rosemary subisce fattivamente le pressioni coercitive della comunità che la circonda, finendo in un vortice di follia oggettiva che legittima, in questo modo, la gravità e l’importanza delle istituzioni contemporanee nel nuovo horror di Polanski. Quelle della signora Woodhouse non sono allucinazioni post partum – sebbene certa critica sia caduta nell’ambiguo tranello – per due semplici motivi: troppo complessa è la trama complottista per poter essere soltanto frutto di una mente suggestionata e troppo oggettivato il finale dell’opera, del tutto disambiguato circa l’attendibilità del fenomeno esoterico.
La rete costruita dalla setta esoterica stringe le proprie maglie avvicinandosi alla protagonista, in un moto vorticoso che, partendo dall’involucro domestico, si stringe fino al suo grembo. Gli affiliati altro non sono che i vicini di casa, il medico curante e i nuovi amici, coordinati dal gran cerimoniere Castevet. Essi colonizzano l’appartamento dei Woodhouse, regalando a Rosemary il ciondolo di affiliazione e manipolando la mente di Guy, facendo leva sulla sua permeabilità nichilista (“Sono cose che non digerisco. Tutti quei costumi, quei riti… qualsiasi religione”).

Il messaggero e neofita altri non è che il marito, reo di aver barattato la propria fama professionale con l’integrità della moglie, ingravidandola con diabolico seme. Guy stringe il più classico dei patti col diavolo, rinsaldando anche il rapporto tra esoterismo e rappresentazione, in virtù del suo mestiere d’attore.
Infine, il diavolo è il figlio che, in seguito al patto, Rosemary porta in grembo. 
L’attacco è deciso, diretto e inequivocabile: gli archetipi “amici” dell’universo sociale moderno non solo sono definitivamente compromessi ma si rivelano i vettori attraverso cui l’elemento demoniaco può nascere, proliferare e vincere la propria battaglia. 
Casa, vicinato, marito e figlio costituiscono il fenomeno esoterico di Rosemary’s Baby, quella pratica inintelligibile che apre spazi e interstizi su dimensioni ignote, confluenti nella culla finale dove giace il diavolo. 
L’innovazione perturbante della pellicola è proprio in questo assunto: niente di ciò che conosciamo è realmente ciò che sembra e la contaminazione può verificarsi proprio nell’ultimo luogo (simbolico) nel quale dovrebbe. Rosemary diventa involucro assediato dalla setta e pervaso dal feto diabolico che in lei riposa. 
Il complotto la stritola e, ogni volta che cerca un nuovo appiglio antropologico cui aggrapparsi (il vecchio dottore, il primo medico curante), esso si rivela parte della setta o da questa viene eliminato.
Quale allora il suo destino? 
In un vortice fatalista, Polanski precipita la sua Rosemary in una spirale senza uscita, modificandone progressivamente l’abbigliamento (dal bianco/giallo iniziale al rosso carminio precedente il fatale rapporto sessuale con il Demonio) e l’aspetto fisico: è sempre più emaciata, pallida e sofferente, in una logica corporea destrutturante che sarà portata a compimento dal successivo filone esorcistico, nel quale però la donna/involucro sarà a sua volta posseduta dal diavolo. 
Rosemary è un semplice e funzionale contenitore, destinato ad un ruolo ben preciso all’interno della setta. 
Dopo la nascita del “bimbo”, infatti, Castevet e gli altri affiliati le chiedono esplicitamente di svolgere la sua funzione di madre (in)naturale: lei si avvicina alla culla e guarda la creatura, due occhi diabolici nel nero del quadro (“Ha gli occhi di suo padre”); infine sorride e la prende in braccio, aderendo così ai nuovi dettami imposti dalla loggia. 
La volontà della madre capitola dunque di fronte alla visione del figlio, in una estrema e sferzante sintesi della profondità coercitiva che assumono i rapporti sociali nella civiltà contemporanea. L’inevitabilità e il dominio incontrastabile del male vanno a braccetto con l’inevitabilità dei condizionamenti moderni, per la prima volta mostrati nelle loro potenzialità esoterico/demoniache.

Con Polanski, dunque, l’horror subisce uno scarto significativo, impartendo una lezione spiazzante: l’oscurità è in noi, nei legami instaurati e nelle unità sociali che reputiamo fondamentali (proprietà domestica, buon vicinato, matrimonio e filiazione). “All’anno uno!” esclamano gli affiliati sollevando i calici, mentre nella stanza troneggia la culla nera di colui dopo il quale nulla sarà più lo stesso. 
Grazie ad una dissolvenza incrociata, la macchina da presa passa dallo sguardo intenerito che Rosemary rivolge al figlio al totale in esterno del Dakota Building, tornando all’anonimato di quei tetti inquadrati nella prima sequenza: il mondo è rimasto uguale e inconsapevole, ma lo spettatore sa che non è che apparenza, e al movimento ad imbuto verso l’interno – compiuto dalla narrazione – ne seguirà uno contrario verso l’esterno, da compiersi nei decenni a venire. Perché il fenomeno esoterico, di certo, non si esaurisce con la narrazione filmica.
All’“anno uno” messo in scena da Polanski corrisponde un nuovo corso cinematografico che – svincolando l’horror dai legami obbligati con l’ambientazione gotica e l’universo semantico dell’inverosimiglianza – lo salda alla contemporaneità e alle sue logiche esoterico-complottiste. 
I nuovi mostri si radicano nel tessuto sociale e in esso si mimetizzano, estendendo la propria influenza nella quotidiana proliferazione. Non più creature irreali, ontologicamente repellenti o frutto dei folli esperimenti dei figliocci del Dr. Frankenstein: il nuovo corso del genere cresce nelle case, negli ospedali e in tutti i nuclei stabili del mondo civile. 
L’esorcista (The Exorcist, W. Friedkin, 1973) apre il genere al citato filone della possessione demoniaca, il cui epicentro è sempre (più) l’abitazione. 
Il diavolo riesce a penetrare in un luogo considerato simbolicamente inaccessibile e ad incarnarsi nel componente più puro dell’istituzione familiare. 
La violazione fisica e mentale della bimba, con la sua conseguente trasformazione, alza l’asticella della crisi messa in atto dal new horror: nessuno è più innocente e i fanciulli possono apparire deformi e crudeli, sull’onda lunga de Il villaggio dei dannati (Village of the Damned, W. Rilla, 1960), seguita compiutamente da David Cronenberg nel successivo Brood. La covata malefica (1979) e da John Carpenter nel remake del Villaggio dei dannati (1995). Accanto ai fanciulli del filone esorcistico – tra i cui titoli ricordiamo il nostrano Chi sei? (O. G. Assonitis, R. Barrett, 1974) – l’esoterismo di celluloide demolisce ogni altra sicurezza. 
Se Stuart Gordon rinnova il mito di Frankenstein in seno al mondo universitario della medicina nel suo Re-Animator (1985), Brian Yuzna attacca la borghesia con i contorsionismi splatter di Society. The Horror (1989), trasformando la “bella società” contemporanea nella sede di abominevoli orge sanguinolente. 
Senza dimenticare gli oscuri simbolismi de I segreti di Twin Peaks (D. Lynch, 1990-1991) né gli ancestrali rituali cannibalici compiuti dal “buon vicinato” ne Il profumo della signora in nero (F. Barilli, 1974). Nessuno viene risparmiato nel nuovo corso horror successivo all’“anno uno” imposto da Rosemary’s Baby.
Al di là di ogni possibile e obbligatoriamente parziale mappatura, è significativo annotare quanto il cinema post-1968 porti alla luce il fenomeno esoterico, svelandone disfunzioni e ramificazioni in seno al corpo sociale. Per rendere l’idea di questa escalation rappresentativa, è utile tornare al cinema di Polanski. 
Se con Rosemary’s Baby l’autore aveva gettato il seme per lo sviluppo interno (dal greco esoteros) degli archetipi della setta e dell’affiliazione iniziatica, con La nona porta (The Ninth Gate, 1999) rende conto di ogni evoluzione, struttura e snodo del fenomeno esoterico su larga scala.

Prelevando nuovamente l’ultima inquadratura del Dakota Building, è lecito affermare che La nona porta costituisca l’esatto prosieguo di quella uscita in esterni: è cinema che svela, attraverso le metodiche ricerche del protagonista Dean Corso, una rete mondiale dell’occulto capace di legare gli Stati Uniti al Portogallo, la Spagna alla Francia, sotto il segno dell’Ordine del Serpente d’Argento, sorta di congrega di streghe per annoiati miliardari utilizzata per orge e rituali sfrenati (di nuovo, ritorna l’attacco alle istituzioni sociali). Se Rosemary trascorreva gran parte del tempo in casa, Dean si muove in una bulimia di luoghi e rivelazioni che disambiguano del tutto l’opera da ogni possibile lettura soggettiva. In opposizione al moto narrativo e grammaticale centripeto che apriva Rosemary’s Baby (dal Dakota all’interno condominiale), La nona porta inizia nella biblioteca di uno studioso per poi mostrare un esterno aereo. Per accedere al mistero esoterico nella sua integrità bisogna varcare soglie in uscita, come sottolineano i titoli di testa con (nove) porte che, inquadrate in carrello digitale, si aprono sul buio.
Di fronte allo spettatore va in scena il mercato globale dell’occulto, l’aggiornamento del fenomeno esoterico sul modello postmoderno della rete. 
Ogni collezione di libri magici diventa accessibile, ogni pista percorribile, ogni rivelazione decriptata: allo spettatore del 1999 è concesso di vedere il diavolo e ammirarlo (ammirarla) in un amplesso consumato con Dean, mentre a quello del 1968 restavano due occhi su fondo nero percepiti solo in pochi fotogrammi sfuggenti. L’assunto vince sulla suggestione, il rituale (sociale) esoterico è srotolato integralmente su pellicola ma, al contempo, privato di ogni possibile funzione destabilizzante.
Consapevole della deriva demistificatoria, Polanski ironizza sull’occulto convocato e lo decostruisce attraverso il filtro grottesco, i personaggi caricaturali e i rivoli umoristici. Perché oggi le violazioni della casa, del vicinato, della famiglia, finanche dei figli, non sono più un fenomeno perturbante. Non stupiscono né spaventano. La nuova frontiera dell’esoterismo filmico non può allora che esserne la parodia.

1. “Certo non è un caso che Adrian Marcato (evocatore del demonio) abbia vissuto lì, ma non sembra esserci alcun rapporto diretto, per esempio, tra lui e le sorelle Trench, che mangiavano i bambini, e allora bisogna concludere che la forza maligna d’una casa, ove esista, agisce indipendentemente da chi la abita” 
A. Cappabianca, Roman Polanski, Le Mani, Genova 1997, p. 120.

2. Angelo Iocola (Il clima cospirativo, in “Nocturno Dossier”, n. 126, febbraio 2013, p. 66) formula l’idea di un trittico polanskiano, composto da Repulsion, Rosemary’s Baby e L’inquilino del terzo piano, costituente “quella che potremmo definire «cospirazione in interni con derive paranoiche»”.